Epoché, una sfida difficile…
“… io non nego il mondo, quasi fossi un sofista, non revoco in dubbio il suo esserci, quasi fossi uno scettico; ma esercito l’Epoché fenomenologica, che mi vieta assolutamente ogni giudizio sull’esistente spazio-temporale.” (Edmund Husserl, Ideen I, § 32…)
In ogni mostra la premessa è nello stesso tempo la prima e l’ultima cosa: serve a distillare il bersaglio dell’esposizione, o a legittimarsi e a replicare alle accuse e disapprovazioni. Ma di solito i visitatori delle mostre non si interessano del fine etico o delle critiche degli specialisti, e perciò non leggono mai un’introduzione. Peccato che sia così, soprattutto in Italia, un paese che già da molti anni ha spazzato via il senso della critica, privilegiando le forme più effimere di curatorialità e di quelle organizzazioni dell’arte che mirano a politiche di integrazione dell’artista e del suo entourage mercantile. Il nostro pubblico dell’arte è quindi ingenuo per riflesso e fa finta di non capire il senso delle “parabole”, forse perche è spaventato dalle scelte critiche e dal bisogno di confronto. Inoltre, non essendo allenato al contraddittorio, non riesce a percepire neanche dove inizia il “serio” dell’arte e dove invece si inserisce il “faceto”: in una parola, nonostante il parossismo dell’immagine mediale, non ha un’educazione alla lettura dell’opera d’arte e neanche dell’immagine medesima. È come se si trovasse in una società dell’apparenza e della rappresentazione, vivendo una estrema estraniazione e inconsapevolezza e persistendo più che nell’epoca del disincanto in quella di un sempre rinnovato incantamento verso il rifiuto della comprensione.
Sapere quanti si offenderanno o quanti si disturberanno soffermandosi sul significato originario del titolo è davvero una conferma curiosa della crisi della critica. Qualcuno forse penserà anche: perche un artista tira fuori una parola greca come Epoché? Probabilmente per burla, o perché quasi per caso un concetto tanto moralistico o filosofico potrebbe eroicizzare le vicende dell’io del nostro tempo! Altri osserveranno molto sottilmente che l’autore, anche nel titolo,aveva ritratto se stesso e tutto il suo circostante. Si tratterà anche questa di una vecchia e pietosa facezia? Evidentemente, la condizione dell’artista che parte da un certo conflitto intimista è fatta in modo che tutto vi si rinnova a partire dalla sua passione per il “metafisico”. La nostra sfera interiore è così stigmatizzata che tutto si modifica, comprese le più inevitabili assurdità. Presso di noi, la più magica delle immagini a stento sfugge al rimprovero di oltraggio. Un’ Epoché del nostro tempo con difficoltà concettuale della visione è davvero un ritratto del nostro mondo. E non è il ritratto di una persona sola, ma è il ricavato dei vizi di tutta la nostra generazione nel suo pieno sviluppo.
Se sapete che sono esistiti gli empi, i funesti e i sognatori, perche non credere alle difficoltà che vive un artigiano della visione, un fotografo che si è disposto nel rifugio di stampe fotografiche e che lui stesso intitola: Un angelo alla porta, My bed is a boat, L ‘angelo Ignoto, Naufragio a Navarrino, Finitezza, Hic parva et magna, Angelo caduto, Agòn-ia, Emma, Una riflessione interrotta, Istantanea asintotica, Approdo Subconscio, Tra qui e (l’al di) là, Parallelamente all’uno. Titoli che indicano immagini, figure estreme che cercano una caratterizzazione simbolica, quasi osservante come la croce, il martello e la tenaglia, che appaiono in primo piano tenendo in bilico una corona di spine segnata dal tempo storico che non attende più, o forse sì, redenzione. E allora se non avete tratto diletto dalla visualità di queste immagini e non avete avuto la possibilità di confrontarle con visioni che si scontrano con finzioni assai più terribili e mostruose, perche questo carattere dell’Epoché, anche se inventato, come del resto tutta l’arte, non trova grazia presso di voi? Forse come dice lo stesso autore questa sospensione di giudizio sull’esistente, questa volontaria messa fra parentesi della realtà, forse questo diretto confronto con la difficoltà di comprensione e di accettazione dell’inoggettivabile contiene più critica della verità di quanto non desiderereste. Ma naturalmente direte che qui l’etica non ci guadagna nulla: in fondo, perché sospendere un giudizio e far vedere il relitto di una nave in secca che sembra declinare nelle condizioni asfittiche di un paesaggio metafisico?
Un artista non è ne un politico ne un costrutto re di sistemi ontologici compiuti, ma è sicuramente uno dei tanti “sguardi del mondo” su una porzione di quella verità irraggiungibile nella sua assolutezza, ma approcciabile ermeneuticamente da quel irripetibile punto di vista vivente che ogni uomo è. Non crediate tuttavia, da ciò che ho detto, che l’autore di queste foto abbia avuto mai l’orgogliosa intenzione di correggere i vizi umani, le fotografie sono soltanto un resoconto immaginario di un viaggio nei territori di confine del dentro e del fuori dell’uomo, una sorta di navigazione tra le atmosfere sospese (è qui che si inserisce l’Epoché) di una normalità che non è più normalità e che forse non lo è mai stata, una realtà che appare del tutto decontestualizzata da improvvise incursioni nel metafisico, nei tratti più reconditi e più sorprendenti dell’immagine dell’essere e della morte, del tragico e del trascendente, figure di uno spazio a volte contratto e altre volte dilatato in una storia e in un tempo che sembra slargato ed espanso. I numerosi angeli che appaiono nelle foto sembrano voler, un po’ come messaggeri non si sa di chi e di cosa, attraversare nei due sensi il confine della realtà umana, verso I’inoggettivabile, come richiesta attiva e partecipata di conoscenza, e verso il soggetto come fonte di rivelazione di un oltre appena intuito.
Messina, in questa sua mostra, che sarà presente alla VI edizione del Festival Internazionale della Fotografia di Roma, ha scelto il difficile titolo di “Epoché” per provare a ritrarre i conflitti di un soggetto contemporaneo anomalo, così come egli appare e come troppo spesso ci viene consegnato in quanto “io”. Epoché sembra che sia stato introdotto in filosofia dall’antico scettico Pirrone di Elide, per indicare la sospensione di giudizio attuata dalla critica. Secondo Pirrone, a differenza dell’uomo comune, le nostre opinioni e le nostre presunte conoscenze non sono mai ne vere ne false, in quanto si equivalgono tutte. Nel Novecento, Epoché fu ripreso dalla fenomenologia di Husserl, per indicare la messa tra parentesi della conoscenza comune e per far sì che quella filosofica possa spingersi al di là delle categorie della saggezza del “pubblico” e sopraggiungere all’intuizione dell’autentica “esperienza vissuta” (erlebnis). Guardando, dunque, nel corpo diretto dell’immagine o dell’immaginario, qualcun altro direbbe nel suo slancio vitale, per carpire la tragicità del naufragio a Navarrino, per ora basta individuare l’Epoché!
In quanto alla cura del male lo sa chi di potenza!