Oltre lo Specchio

Da quando ho curato e realizzato la mostra «Oltre lo specchio – Fotogra­fie della Surrealtà», mi si chiede sempre più spesso di chiarire, spiegare, intervenire sul concetto di surrealtà e sulla fotografia che lo esprimerebbe. Di questo sono ovviamente contento, perché io credo fortemente in questa potenzialità espressiva e perché sono convinto che attraversiamo un periodo storico e sociale che trova in questa espressione fotografica la sua naturale quanto necessaria forma artistica antagonista. Approfondiamo dunque, ma facciamolo a partire da due presupposti: uno linguistico, che investe la sostanza generale del problema, e uno autocritico, da riferirsi alla mostra citata e perciò interno al discorso fotografico.

Per quanto concerne il primo, va detto che il termine “surrealtà” non viene preso in considera­zione, neppure come neologismo, da alcun dizionario della lingua italiana. Si trovano gli aggetti­vi “surreale”, che lo “Zingarelli” riferisce genericamente quanto unicamente al mondo dell’incon­scio e della psiche, e “surrealista” riferito, sempre dallo “Zingarelli” al sostantivo “Surrealismo”, peraltro di origine francese, inteso come movimento artistico e letterario datato. È quindi un da­to di fatto che al termine “realtà” non corrisponda né come significato antitetico, né come signi­ficato complementare il termine “surrealtà”. Quello che è considerato il giusto atteggiamento nei riguardi della realtà, ovvero il realismo, può anche esser messo in discussione da surrealisti e surrealismi, purché la realtà dei savi e dei ponderati resti l’unica, onnicomprensiva e insuperabile. Eppure, antagonista e complementare alla realtà, contemporanea in quanto possibile da pensa­re, la surrealtà è virtualità del desiderio e dell’intelligenza. Essa come creatività mentale e spiri­tuale pura si manifesta come rifiuto onnipotente, come superamento fantastico e delirante dello stato delle co­se, come l’ultima libertà contro ogni evidenza. Lo stato attuale delle cose nega sempre la possibilità del suo su­peramento, minimizza le alterità, esorcizza e annulla i suoi nomi, perché in fondo i nomi sono le cose. E veniamo al secondo presupposto, quello autocritico. Mi riferisco alla mostra «Oltre lo specchio», all’inizio cita­ta, per dire che in fondo, solo in parte essa ha corrispo­sto alle definizioni forti della surrealtà che ho appena dato. Certo nessuna delle oltre sessanta opere degli un­dici autori in mostra ha riflesso la realtà per come siamo abituati a percepirla, ma il fatto di averla stravolta ai sen­si, reinterpretata fisicamente, o se preferite, contro ogni logica fisica, non è di per sé sufficien­te a che sia stata fatta fotografia della surrealtà. La verità è che paradossalmente alcuni autori hanno con i loro collages e fotomontaggi specchiato fedelmente la realtà schizoide del nostro mondo affettivamente e socialmente frantumato. Lo hanno fatto bene, ma con distacco, sen­za l’aggressività sovversiva dei Grosz e degli Heartfield. Hanno preso atto, forse senza capire, ma certamente adeguandosi, delle macerie degli anni ’80. Altri (sarebbe meglio dire altre) han­no ripreso il discorso di Mari Mahr e Sandy Skoglund, che più che fare fotografia surreale, han­no immesso nel mondo della realtà, come i coralli le loro uova nel mare, gli innumerevoli og­getti del loro universo femminile, con a speranza che questi vadano a formare qualche splendi­do atollo su cui poter naufragare nel mare immenso della realtà. Bello, ma autoconsolatorio. Non è data fotografia della surrealtà senza partecipazione emotiva intensa e dissacratoria, sen­za provocazione distruttiva liberatoria, senza l’estetica della cattiveria e dell’intelligenza. Intelli­genza e cattiveria che assemblano l’assurdo per cogliere un altro senso o il vero senso delle co­se, che colgono il nonsense per togliere senso alla stupidità, che valorizzano attraverso la tea­tralizzazione della metafora il linguaggio dell’inconscio. La fotografia della surrealtà è dunque una fotografia di idee, di strane idee che si fan­no immagini, e non fotografia sulle idee (foto­grafia concet­tuale), sul loro funzionamento e sulla loro frui­zione. Poiché il loro discorso si esplica più sulla forma che sulla sostanza della realtà, non vedo madri vere nelle Mari Mahr e nel­le Skoglund, co­me non vedo padri nel pae­saggismo metafisico di un Ghirri o in quello astratto di un Fontana, né tantomeno negli illustri precedenti concettuali di un Duchamp o di un Man-Ray.

Ammesso che sia necessario per compilare una carta di identità, procacciarsi genitori e influen­ze, questi vanno allora ricercati in una certa fotografia americana che soprattutto negli anni ’70, ma non solo, ha prodotto le sue cose migliori. Sto pensando innanzi a tutto a Leslie Krimms e ad Arthur Tress, aggressivi dissacratori del loro mondo, costruttori ineguagliabili di improbabili sce­nografie di metaforici teatri. Le loro scene sono calcate dal piccolo borghese americano sempre alle prese con i mille simboli della sua ottusa opulenza (Krims), e dagli infiniti possibili personaggi esistenti all’interno d’un singolo individuo (Tress). Le loro immagini dure, violente, provocatorie, ironiche descrivono senza pietà le omologazioni dei tanti e la diversità di ognuno. Altri sicuri in­flussi possono esser trovati in Duane Michals, come nell’apparentemente più lontano Ralph Gib­son con le sue atmosfere rarefatte sospese fra poesia e sogno, o persino in Robert Frank, non in quello di “The Americans”, ma in quello più sciatto che rievoca la beat generation o insegue le follie dei Rolling Stones.

Alcuni dei (più o meno) quarantenni autori di «Oltre lo specchio» affrontano la fotografia della surrealtà con questo patrimonio negli occhi, nel cuore e nella testa, più che con le reminescenze didattiche delle avanguardie storiche, e ne sono per questo i veri ed attuali interpreti.