Immagine del concetto e concetto dell’immagine

VOLPI. Fin da tempi ormai lontani la volpe di Esopo ci ha dimostrato come e per­ché l’uva fosse acerba ed ella si degnasse di lasciarla ad altri. Quest’anno alla Bien­nale di Venezia una vecchia ed una giovane volpe ci hanno ribadito che l’immagine fotografica è definitivamente spirata e sepolta. A meno che, aggiungo, qualcun altro non risulti in grado di farne miglior uso.

Steven Pippin, inglese di trentadue anni, non sappiamo se di pelo fulvo o argenta­to, si è guadagnato la prestigiosa platea per essere il più versatile ed abile costruttore di macchine fotografiche. Egli è infatti capace di ricavare una fotocamera dal più strampalato degli oggetti di uso comune: una lavatrice, un armadio, un W.C. del bagno e via elencando contenitori assurdi.

Immagini così ricavate ognuno può ben immaginarle. Pensate ai sublimi punti di vista di una Rex o di una Castor in azione con la massaia davanti, o a quelli di una tarma tra stampelle e giacche nel magico istante in cui si schiudono gli sportelli di un armadio; sicuramente il rovesciamento del punto di vista e dell’usuale modo di concepire coglie il suo frutto migliore col W.C. che, immaginiamo, immortala l’e­strema tensione di una evacuazione, e nel caso il Pippin l’avesse dotato di winder a motore, che coglie immediatamente dopo la tensione, l’abbandono del carico della stessa.

Steven Pippin dichiara con candore: «…costruita la mia prima macchina con una scatola di biscotti volevo usarla per una immagine importante, piena di significato, ma non mi venne in mente nulla! Capii allora che ciò che mi interessava era il pro­cesso di costruzione in se stesso…»1. E bravo Pippin! Diciamo finalmente che tutto questo agitarsi sul «come fare» nasconde in realtà l’assenza di idee sul «cosa fare».

L’altra volpe, quella vecchia, la conoscono tutti: è il mitico Oliviero Toscani, dal pelo sicuramente brizzolato e in grandi quantità sullo stomaco. Questo grande per le immagini altrui, chiamato a esprimersi in mostra con sue opere d’arte, ha tappez­zato i muri della Biennale con centottanta sessi di uomini e donne in gigantografia.

Una banalità, se la vedi stampata in 7×10 cm. e non sa di niente, non diventa più bella perché la vedi in 2 metri x 2, e ne centuplichi le copie. È solo un ingrandimento ripetuto con diabolica perseveranza. Una stronzata se la monti a neve o ci fai un soufflé, resta sempre una stronzata. Assaggiare per credere2.

FOTOGRAFIA DA RACCONTARE. Siffatte opere d’arte non hanno in verità la necessità di esser viste per esser godute. È sufficiente che qualcuno ce le racconti, dal momento che nel racconto c’è già tutto quello che verresti a sapere andandole a vedere. I più le conoscono infatti attraverso il racconto dei media. Il vederle non può aggiungere nulla di più. Anzi. Poiché l’emozione riguarda l’operazione concet­tuale (?) e non la fruizione delle immagini, una volta che si vedano dopo averle «sa­pute» non ti lasciano neppure l’emozione della sorpresa.

Pare proprio che nei correnti tempi l’interesse degli autori (e quello del pubblico fruitore?) non sia più per l’immagine in se stessa, ma per l’artificio che riescono a crearci attorno e per l’operazione concettuale che tale artificio dicono sottenda. Lo shock emotivo che si vuole provocare nello spettatore non scaturisce più dal conte­nuto/forma del prodotto/immagine, ma dall’operazione che sottende la costruzione dell’immagine. Si potrebbe dire meglio che il contenuto dell’immagine è l’operazio­ne stessa.

TERTIUM NON DATUR. Questo modo di vedere e di operare porta il mondo del­l’immagine fotografica ad una divaricazione netta che istituzionalizza il procedere del discorso su forme e contenuti ponendo da una parte le grandi retrospettive dei grandi autori del passato più o meno recente, a cui è lasciata la bellezza classica delle forme e dei contenuti da contemplare come patrimonio di un fare ormai storicizza­to, e dall’altra ponendo invece una forma d’arte concettuale che ha nelle esercitazio­ni metalinguistiche i suoi contenuti e le sue forme. Tertium non datur, appunto.

UTENZE E PRODUZIONE CULTURALE SOCIALMENTE UTILE. Paradossal­mente, proprio nel momento dell’apoteosi della comunicazione attraverso le imma­gini, la fotografia attraversa un generale momento di crisi dal punto di vista cultura­le e come forma di espressione artistica autonoma. I generi fotografici che resistono e che trovano conseguente espressione nei correnti meccanismi produttivi e profes­sionali in quanto «utili», sono la fotografia pubblicitaria e quella giornalistica. La prima si dibatte fra genialità e sregolatezza svendendo bene bellezza e gusto a fini di molto più basso profilo, e la seconda ci dà l’informazione quotidiana, sempre me­no eroica ed esaustiva, soppiantata com’è dall’informazione in tempo reale del mez­zo televisivo, che rendendo il mondo un grande villaggio globale, apparentemente lascia ben pochi segreti da svelare ancora.

La fotografia come espressione individuale e artistica, dagli anni ’80 sembra inari­dirsi e ripiegarsi su se stessa, permettendo a qualcuno di parlare già di morte della fotografia, e ad altri, conseguentemente, di superarla inglobandola in forme d’arte dalle tecniche miste e installative.

Gli ambienti culturali ufficiali, o comunque coloro che sono in grado di operare, non andando, come già detto, oltre la riproposizione retrospettiva dei grandi classici o la messa in scena del concetto puro, si negano di fatto all’organizzazione e promo­zione di quelle forze e proposte nuove che pure esistono diffuse; di conseguenza non riescono ad individuare e convogliare quel vasto, vergine e giovane pubblico amante delle cose belle e intelligenti che esiste al di fuori dei salotti noiosi e annoiati da una parte, e dall’altra, fuori dallo sclerotizzato e consunto modo di vedere amatoriale di quel pubblico delle riviste specializzate, attento più alle possibilità e novità tecni­che del mezzo fotografico che alle capacità espressive di chi lo usa.

FOTOAMATORE. Questo orribile termine sopravvive come uno zombie insieme alle categorie sorelle di paesaggio, reportage, ritratto, permettendo al mercato fotografi­co di nutrirsi di cose morte e di scindersi volentieri tra le masse dei necrofili e le élite dei professionisti.

Le riviste fotografiche in genere, come è forse logico, invece di produrre cultura di immagini, hanno investito sulla sterilizzazione e sul livellamento verso il basso del mondo amatoriale, indirizzandolo verso i luoghi comuni del tecnicismo sempre più avanzato, utile solo al mercato dei prodotti fotografici.

Il pubblico di questo settore sembra perso ormai per sempre. I suoi limiti e il suo isolamento culturali sono evidenti. Le immagini che predilige non hanno contamina­zione alcuna con qualsivoglia altra espressione culturale, ma sono il prodotto bidi­mensionale raffigurante su carta solo alcune nozioni di ottica e fisica generali. Le manifestazioni culturali più appetite sono i baracconi alla SICOF con passerelle di modelle e ostentazione di virili teleobbiettivi; chi vuole invece illudersi di non confondersi nella massa, opta per gli esclusivi viaggi a pagamento (work-trip-shop po­tremmo chiamarli) al seguito della star di grido.

Il fotoamatore resta indifferente, e infatti le diserta, alle piccole mostre dei «nuovi geografi» e degli ingrati epigoni ghirriani, che dal maestro hanno assimilato soltanto quella poetica minimalista che una volta privata del concetto potenzia al massimo l’espressione del nulla. Eppure questa fotografia, insieme all’astrattismo paesaggi­stico alla Fontana, che gode forse di una qualche maggior fortuna, resta al dunque il referente culturale e creativo più vicino al pubblico fotoamatoriale.

SURRE ALTA CONTRO MODERNISMO. Noi siamo convinti che la crisi delle im­magini (non solo fotografiche) sia parte di quella più vasta crisi di idee scaturita, per dirla con le parole di un bellissimo articolo di Nichi Vendola, dall’instaurarsi di quella «perniciosa e pervasiva ideologia della “fine delle ideologie” — ovvero [del-] l’ingloriosa resa al mito della complessità irriducibile del moderno, [del-] la rinuncia a un punto di vista globale e radicale sulle società contemporanee»3.

L’egemonia culturale esercitata da questa onnifagocitante ideologia della fine del­la storia fa sì che l’immagine non debba rappresentare nulla di diverso dallo stato attuale delle cose. L’immagine oggi non può che essere la «fotografia» (nel senso più becero di fotocopia) della società del libero mercato raffigurante le sue belle merci colorate ed il portato della struttura culturale che le produce. I cantori di questa so­cietà, e gli artisti fra i primi, non possono che esprimere attraverso la loro opera l’i­neluttabilità della atomizzazione delle coscienze e la disperata soddisfazione di vive­re nel migliore dei mondi possibili. Allora come sottrarsi alla sindrome di impotenza espressiva dovuta al fatto che tutto è già stato fotografato, perché tutto è già stato visto e anche interpretato? Sicuramente, anche se non è certo l’unica risposta possi­bile, col dire che non tutto è stato immaginato. Nella doppia accezione, naturalmen­te, di dare corpo ai sogni, alle fantasie, alla creatività visionaria, e di porle in imma­gini appunto. Rendere possibili le trasformazioni attraverso l’affermazione della possibilità di rappresentare ciò che non è. Questo, il nostro sia pur parziale punto di vista. Di qui la necessità, come operatori dell’immagine fotografica, di promuovere e appro­fondire la ricerca di quelle individualità fotografiche che assumendo il linguaggio espressivo della surrealtà e della astrazione rivitalizzino e rinnovino l’espressione fo­tografica mutandone linguaggio e contenuti a partire dal ribaltamento dell’antico preconcetto che vuole la fotografia specchio d’una realtà esteriore. La fotografia della surrealtà e dell’astrazione è piuttosto lo specchio di percorsi interiori, una sorta di reportage dall’interno, che riunisce stilisticamente le forme ai contenuti a livelli più profondi, e che rida al concetto le forme e non soltanto struttura4.

POST SCRIPTUM. Dietro l’angolo ci aspetta lo sviluppo mostruoso della tecnolo­gia informatica. Il nostro concetto di surrealtà e il nostro modo di concepire le im­magini, di radici sicuramente bretoniane, dovranno (duramente?) confrontarsi con l’emergente fenomeno della realtà virtuale e delle immagini di sintesi. L’impatto culturale con queste nuove possibilità tecnologiche che rendono possibile l’interazio­ne fisica con il computer che a sua volta è in grado di generare l’imprevedibile, è di una portata tale da scuotere qualsiasi certezza tradizionale del sapere. La realtà virtuale sospesa tra simulazione del possibile e intervento sulla natura va considerata in primo luogo per i suoi effetti sul sociale e sullo psichico. Ma un tipo di società piuttosto che un altro indirizza ovviamente ad un uso diverso di queste tecnologie. Ci vorranno probabilmente alcuni anni per iniziare ad orientarsi nella direzione di una comprensione e sistematizzazione di tali implicazioni.

Sebastiano Messina

Note

(1)    Steven Pippin, da un’intervista a “Zoom”, luglio/agosto 1993.
(2)    A riprova del fatto che al peggio non c’è mai fine, la Biennale di venezia ha presentato anche le opere del fotografo Andres Serrano che, è il caso di dirlo, ha “immortalato”, in stampe di un metro e mezzo per uno e venticinque, i cadaveri di un obitorio. La grandezza delle stampe, in questo caso, serve probabilmente a distinguere l’artista dall’impiegato della morgue.
(3)    Nichi Vendola, Ecco il mostro mangia-ragazzi, “Liberazione”, 10/17 Settembre 1993.
(4)    Per queste ragioni, chi scrive ha promosso e curerà una mostra collettiva cul tema della “Surrealtà” nella fotografia. L’appuntamento è per la prossima primavera (speriamo) in una sala di Roma.