Di fronte alle fotografie di Claudio Spoletini e Sebastiano Messina non si può non interrogarsi sulla natura espressiva dell’immagine e sul suo rapporto con altre forme d’arte. Viene immediata alla mente la definizione della fotografia data da Baudelaire: serva di tutte le arti. Perché definirla spregiativamente serva? Perché imita? Ma anche nell’imitare non sviluppa un suo specifico processo linguistico che inevitabilmente trasforma il soggetto? Diceva Grandville: la fotografia è un’arte, perché ha mezzi propri e una propria estetica.
La specificità di un’arte non è però un limite, anzi diventa per l’artista una sfida, una sorta di confine da superare per trovarsi eternamente di fronte a un nuovo confine. Il mezzo tecnico viene indagato e plasmato alla ricerca di un linguaggio sempre più consono alle finalità espressive dell’autore; per la costruzione di un’immagine tutti i mezzi sono leciti, purché il risultato abbia uno spessore comunicativo che ne giustifichi l’uso.
D’altra parte ormai nell’arte moderna questo è un dato scontato: il Dadaismo prima, il Surrealismo poi, giù giù fino alle espressioni più recenti dell’arte povera e del concettuale hanno fatto del libero uso di elementi eterogenei, o altri da quelli della tradizione figurativa, la base del loro linguaggio. Il significante viene deprivato dell’originale valore semantico, in una ricostruzione arbitraria che induce in nuovi significati, legati alla associazione di valori formali, risultanti da disposizioni sul campo legate da consonanze e/o dissonanze appositamente create.
Sulla base di questi principi si muovono le immagini di Claudio e Sebastiano che solo pretestuosamente si collegano alla poetica di P.P. Pasolini; il rapporto testo/immagine non viene sviluppato in una traduzione di fonemi in fotemi, quanto in una ricostruzione di forme evocatrici atmosfere e sensazioni, in una lettura che va al di là della semplice aderenza al testo nel suo complesso. Persino la morfologia dell’immagine si adegua alla situazione, innestando su elementi tradizionali di fondo giochi e rimandi che richiamandosi al colore come legante finiscono con l’assumere nuovi esiti figurativi.
Sembra di assistere ad un uso spregiudicato dei ready-made di Duchamp in chiave simbolica. I singoli componenti dell’immagine, pure forme autonome, si sovrappongono e spesso interferiscono tra loro in una ricerca di dialogo e di appartenenza ad uno stesso discorso logico. I ready-made si trasformano così negli oggetti d’affezione alla Man Ray, assemblaggi di fotemi solo apparentemente veri e propri non-sense, capaci tuttavia, in virtù di interne logiche fatte di ironia, travisamento, stupore e inganno, di ricostruire un immaginario onirico ricco di fascino misterioso e al tempo stesso accattivante.
La tecnica dell’assemblaggio e del sandwich di immagini è di per sé una strada rischiosa, perché il cattivo gusto (o al meglio il kitsch) è sempre in agguato, ma i due autori sembrano essere costantemente sorretti da un rigore compositivo che li affranca da questo tranello e li porta a dispiegare con sicurezza le proprie capacità compositive fino a conseguire risultati di notevole valore formale.
Il tutto senza tradire l’assunto, con compiaciuta autoironia e un senso al tempo stesso di disincanto e partecipazione che arricchisce il livello comunicativo delle loro immagini.