La fotografia torna come un tradizionale assassino sul luogo del delitto; in questo caso si tratta del tema del cibo, affrontato nella sua proteiforme molteplicità di forma e contenuto. Il cibo, vitale elemento del ciclo della vita, ha interessato da sempre i produttori di immagini, spesso associato a eros e thanatos, suoi alter ego. La fotografia ha fatto la sua parte nel cercare di cogliere questa complessità in maniere a volte dirette e naives, a volte con immagini di una funerea ed estenuata eleganza, a volte, come in questo caso, con una ricerca di accostamenti e sovrapposizioni simboliche di gusto surrealista. Così Timmagine finale tende a mostrarsi come una metafora del cibo stesso, tende cioè a presentarsi come cibo per gli occhi e la mente inducendo a riflessioni e considerazioni che vagano allo stato latente nell’inconscio individuale come portato da un inconscio collettivo ancestrale. Le fotografie divengono la reificazione del sogno infantile della pasticceria (quello per intendersi in cui si sogna di rimanere soli in una pasticceria e liberi di dare sfogo al piacere di mangiare tutto ciò che si vuole), ma anche la reificazione dell’angoscia del cibo come principio di morte e disfacimento. Su tutto ciò sembra riflettere Sebastiano Messina quando compone con una meticolosa scelta di soggetti e di accostamenti cromatici le fotografie, senza perdere mai un pizzico di sarcasmo e autoironia. Sorretto da una vena creativa particolarmente felice, accompagnata da una raffinata tecnica di ripresa, e da un senso dell’inquadratura sempre puntuale, il fotografo si inoltra per il labirinto dei sogni cogliendo e spigolando frammenti di una realtà onirica (ma non troppo), riproposti come edipici enigmi. Non c’è solo, come mi era apparso ad una prima e approssimativa lettura, la volontà di denuncia in senso lato che mi avevano portato ad avvicinarlo al-l’Oldenburg pop, ma la ricerca quasi ossessiva di cogliere una interezza impossibile che rimanda a esperienze quali quelle della fabbrica giapponese dei cibi per vetrine, con tutto il suo bagaglio di falsità materiche messe in atto come sostituti perenni della provvisorietà, o quelle del risotto milanese alla foglia d’oro, ultima boutade della nouvelle cuisine milanese, o infine alla mensa barocca e trabordante della Grande Bouffe di Ferreri. Il linguaggio delle fotografie è solo apparentemente semplice, come spesso accade nelle immagini riuscite, e per rendersene conto basti osservare la unitarietà di luce e linee; il colore partecipa con la sua squillante presenza e con il contrasto accentuato, proprio del cibachrome, alla formazione del contesto visivo. La composizione, che fa largo uso dei punti forza, risulta sempre equilibrata e pulita, quasi a sottolineare la ovvietà del messaggio, semplice e ineluttabile. C’è forse in questo un certo autocompiacimento ammiccante all’osservatore, come a volerlo rendere partecipe dell’opera di codificazione e decodificazione dell’immagine, in un gioco di offrire e celare dialettico.
Si tratta in sostanza di immagini costruite per essere lette a più livelli quasi a seguire umori apparentemente estemporanei, ma in realtà suggeriti e anzi giudicati dal fotografo.