Oltre lo specchio

Nulla si sa, Tutto si immagina. Federico Fellini

In quest’epoca che segue gli anni Ottanta, segnata più da grandi trasformismi che da grandi trasformazioni, si ha l’impressione che il tanto decantato crollo dei muri abbia più confuso che unito, più annullato differenze che valorizzato e promosso pensieri “altri”. Difatti, sotto la pressione di sempre più pervasive egemonie, nel mondo occidentale il grande frullatore della cultura mediale ha sminuzzato e disperso, nel venir meno degli antagonismi, ogni espressione e il suo contrario, omogeneizzando le culture in una maionese impazzita. In questo mefitico intruglio i componenti post-incompatibili convivono ora uno accanto all’altro ognuno post-di se stesso, indifferenziandosi in quel magma della realtà post-moderna intor­no a cui, quasi per incanto, si è innalzata un’enorme e “nuova” muraglia a perimetrare l’esi­stente.

L’unica ideologia sopravvissuta come dominante, quella della fine delle ideologie, ha praticato l’annullamento di altre storie ed altre economie, riconducendo le differenze ad un’unica aspirazione socio-culturale.

L’America è diventata così l’unico sogno e l’unica realtà, eterno presente e utopia realiz­zata di un pensiero e di una storia che si vorrebbero conclusi con il secondo millennio.

In questo mondo culturalmente blindato, la libera espressione è spesso espressione di disperata soddisfazione e il libero esercizio del dissenso è, ancora più spesso, soltanto quello esercitato contro chi dissente dalle vigenti categorie critiche e dall’attuale stato delle cose. Nella società che è delle immagini per definizione concettualmente estesa, la libera espressio­ne attraverso queste non è problema di poco conto soprattutto se trattasi di immagini fotogra­fiche.

Nell’immagine fotografica, che nasce da uno strumento tecnico la cui peculiarità è quel­la di produrre copie della realtà visiva, il problema della creatività è quello della rappresenta­zione di qualcosa che non c’è.

Il ricorso al mondo interiore, all’inconscio e all’onirico, diventa allora indispensabile per combattere una razionalità pervasiva che tutto ingloba e concilia, perché soltanto attraverso l’affermazione della realtà dei sogni e la costruzione visiva dell’impossibile, l’artista può ancora sentire di gettare nuovamente le basi dell’atto creativo e spargere i germi della trasformazione.

Di qui la necessità di iniziare a evidenziare, senza la presunzione di essere stati esaustivi, più che uno stile fotografico, un genere in fieri, che esprima attraverso immagini della “sur­realtà”, o più semplicemente del fantastico, il tentativo di non riflettere l’attuale realtà, di non essere speculari ad una razionalità che pretende l’onni-comprensività e Tonni-comprensibilità.

Il risultato non è inequivocabilmente certo. Può darsi infatti che le immagini che propo­niamo vadano a collocarsi oltre lo specchio che riflette la realtà, come può darsi invece che es­se riflettano soltanto un po’ di quella follia e bellezza perversa di una realtà atomizzata e in­congruente che, come spesso accade nell’era del post-moderno, è incapace di andarsi a ricom­porre oltre se stessa.

Può darsi, con più probabilità, che riscatto del surreale e constatazione acritica della fran­tumazione coesistano, ma che per questo stesso fatto segnino l’avvio di una dialettica. E que­sto mi sembra comunque un buon punto di partenza.

Quando ho iniziato a raccogliere presso gli autori le opere di questa esposizione, ho immaginato che il Salone d’Onore del Museo della Civiltà Romana potesse mostrarsi allo spettatore come una sorta di “Arsenale delle Apparizioni” pirandelliano, uno stanzone in cui, “da ogni gomito d’ombra” e per “desiderio dei nostri stessi occhi” prendessero corpo e vita fantasmagorie di follie e colori, di sogni e disperazioni, di incubi e messaggi di speranza.

Tutto questo senza l’ausilio di tecniche espositive installative, di cubi luminosi o di accat­tivante gigantismo, elementi oggi molto considerati da una certa critica più affascinata dall’ef­fetto arredamento che da quello dell’immagine in sé.

Le tecniche fotografiche e non degli autori in mostra sono le più svariate e diverse: c’è chi usa le multiesposizioni contraendo e dilatando a piacere lo spazio e il tempo, e chi sovrappo­ne immagini obbligando la realtà, non più univoca, alla coesistenza con i propri fantasmi; chi fa uso del fotomontaggio creando l’impossibile, e chi per inzeppare il mondo visivo di oggetti e situazioni, compressi in un sol colpo d’occhio più che sul metrò nell’ora di punta. C’è poi chi interviene pittoricamente sulla propria opera già abbondantemente manipolata a suggellare l’unicità irripetibile del proprio delirio.

Altri, infine, operano direttamente sulla realtà, reinventandola con la costruzione di scene e scenografie destinate a vivere soltanto il breve tempo delle riprese, ma anche a dar vita a quell’atto unico per immagine, a quel condensato di storia teatrale che è il risultato finale della stampa fotografica.

Ma gli autori di questa mostra, giova riaffermare il concetto, non sono stati- accostati tra loro guardando alle tecniche; essi stanno insieme perché ritenuti comunque rappresentativi di quel filone fantastico dell’espressione fotografica, che tagliando i ponti con la propria tradizio­ne originaria, da sempre tesa alla riproduzione sia pur interpretata dell’evidente, la violenta a tal punto da rendersi autonoma dalla natura iperspecializzata del mezzo, per privilegiare l’im­magine non immediatamente riproducibile in quanto assolutamente soggettiva.

L’impatto emotivo, la forza eversiva, e talvolta ironica, con cui le immagini si impongono, così come la poetica che le sottende, non si esprimono in egual misura in tutti gli autori, ma anzi nell’emergere di qualche disomogeneità si evidenziano pluralità psicologiche e stilistiche che arricchiscono e non ingessano una ricerca che non può che essere considerata in sviluppo.

L’importante è che questo allontanamento viepiù irreversibile della fotografia dalla foto­clonazione, la riawicina, a mio avviso in maniera più pertinente, alla sua radice etimologica di “graphia”, permettendole di farsi ora scrittura poetica, ora scrittura pittorica e teatrale.

La fotografia della surrealtà, infatti non rispecchia storie e accadimenti, ma le riscrive e li reinventa, perché riconduce il medium fotografico all’essenzialità di una penna o di un pen­nello che attingono direttamente alla fonte creativa dell’io, specchio soggettivo e poliedrico di ogni cosa.

Dice Pirandello per bocca di Cotrone nei “Giganti della montagna”:

“Se lei, Contessa, vede ancora la vita dentro i limiti del naturale e del possibi­le, Vavverto che lei qua non comprenderà mai nulla. Noi siamo fuori di questi limiti, per grazia di Dio. A noi basta immaginare, e subito le immagini si fanno vive da sé. Basta che una cosa sia in noi ben viva, e si raùùresenta da sé, per virtù spontanea della sua stessa vita. È il libero avvento d’ogni nascita necessaria. Al più al più, noi agevoliamo con qualche mezzo la nascita. Quei fantocci là, per esempio. Se lo spirito dei personaggi ch’essi rappresentano s’incorpora in loro, lei vedrà quei fantocci muoversi e parlare. E il miracolo vero non sarà mai la rappresentazione, creda, sarà sempre la fantasia del poeta in cui quei personaggi son nati, vivi, così vivi che lei può vederli anche senza che ci siano corporalmente. Tradurli in realtà fittizia sulla scena è ciò che si fa comunemente nei teatri. Il vostro ufficio”.