Oltre lo specchio

SURREALISMO E FOTOGRAFIA

Quando nel 1924 appare il manifesto del Surrealismo, definizione già data da Apollinare nel 1917, questo sembrò la naturale evoluzione del movimento Dada, sviluppatesi so­prattutto sul versante dell’inconscio e dell’irrazionale. Tra i padri fondatori, Eluard, Aragon e soprattutto Breton, che era anche medico psichiatra, le teorie di Freud sull’inconscio avevano avuto una forte presa. E il peso dell’inconscio con il suo linguaggio per immagini trova imme­diato sbocco nella formulazione di un’arte capace di far emergere i contenuti profondi dell’in­conscio stesso. Argan dice: “L’inconscio non è soltanto una dimensione psichica che l’arte esplora più facilmente a causa della sua familiarità con l’immagine, ma è la dimensione dell’esi­stenza estetica quindi la dimensione stessa dell’arte”. Nel 1928 con la pubblicazione di “Le Surréalisme e la Peinture” di Breton viene codificata una vera e propria estetica surrealista. Alla base della ricerca estetica surrealista è la volontà di ripensare in maniera nuova il problema della forma, ed è su questo terreno che si sviluppano le differenti prese di posizione da parte dei singoli artisti, che elaborano forme e linguaggi iconici totalmente indipendenti, dando ori­gine a esiti quali quelli di M. Ernst o S. Dalì, di P. Delvaux o di R. Magritte. Anche le tecniche di rappresentazione vengono coinvolte in questa esasperante ricerca di rappresentare l’inconscio e il visionario, seguendo a volte la tradizione accademica con un estenuato estetismo e a volte, riprendendo la lezione Dada, utilizzando collages polimaterici e simili.

Non poteva mancare in questo contesto un marcato interesse dei surrealisti per la foto­grafia, interesse frutto di una lunga riflessione sulla natura del fatto visuale, in cui la fotografia è considerata l’immagine moderna per eccellenza, un vero lucernario culturale. Già nel 1924 i primi surrealisti fondano una rivista, “La Revolution surrealiste”, il cui stile di impaginazione ri­faceva il verso della paludata rivista scientifica “La Nature” come per sottolineare ironicamente, ma non troppo, i valori che vi venivano esposti. I surrealisti insistevano sul fatto che l’immagi­ne fotografica comunicava più di quanto ordinariamente le si chiedeva di mostrare. Criticava­no la nozione di comunicazione esatta e dichiaravano che dallo stesso documento potevano emanare messaggi differenti. Tra gli artisti che si servirono subito della fotografia va menziona­to S. Dalì, che realizzò un montaggio basato su fotografie, alcune certamente di Brassai, per esprimere la sua concezione dell’estasi.

Lo stesso Brassai collaborò con le sue fotografie ad alcuni numeri della rivista “Minotau-re”, scrivendo per esse didascalie in puro stile surrealista come “È davanti al muro della Sante, sotto gli alberi del boulevard Arago, che la ghigliottina taglia la testa ai condannati a morte”, che inducono a cercare di leggere l’immagine fotografica, che pure non mostra altro che un muro su cui si stagliano le ombre degli alberi, in maniera metaforica. Man Ray dopo l’esperien­za dadaista conobbe Breton e aderì al surrealismo sviluppando ulteriormente la tecnica del rayogramme con cui cerca di penetrare la materia solida e di esprimere l’invisibile. Nel 1937 pubblicò con la prefazione di Breton un libro intitolato “La Photographie n’est pas l’Art” in cui espone la sua convinzione circa l’impossibilità per la fotografia di raggiungere una qualsiasi di­mensione artistica, e correda le fotografie di bizzarre didascalie come “Taccuino comprato da un mendicante e composto di dodici fotografie”, inventate per sbeffeggiare l’atteggiamento dei borghesi verso la fotografia stessa e per spiazzare la retorica estetica sorta intorno alla fotogra­fia d’avanguardia.

Verso la fine degli anni Trenta la fotografia cominciò a perdere il suo fascino presso gli ar­tisti delle avanguardie, forse a causa di un eccessivo sfruttamento della manipolazione del mezzo fotografico che un po’ alla volta aveva inaridito l’ispirazione ed era divenuta un giochi­no fine a se stesso. La ripresa avviene verso la metà degli anni Cinquanta ed è tuttora in piena fioritura, grazie ad un rinnovato interesse per le avanguardie tanto da essere definite da Calvesi neo-avanguardie. Delle avanguardie storiche le neo-avanguardie hanno ripreso, oltre al gusto di provocare, il culto del surreale e per questo hanno sviluppato la pratica dell’associazionismo (metafore, collage, assemblaggio, montaggio) servendosi con dovizia anche delle nuove tecni­che messe a disposizione dell’industria dell’immagine, come Polaroid e fotocopie. Infatti es­sendo la fotografia l’impronta fisico-chimica di una presenza, una superficie astratta e distinta da ogni riferimento spaziale, essa viene a trovarsi nella situazione di ogni materiale grezzo, ma­nipolabile al pari di ogni altra sostanza concreta (ritagliabile, combinabile, sovrapponibile . . .), quindi integrabile come tale nelle realizzazioni più diverse, in cui il gioco degli accostamenti può addivenire ad ogni effetto. C’è sempre, al di là di fini particolari, una sorta di duplice vo­lontà globale: da un lato, integrare l’immagine fotografica con il suo specifico in un grande as­sieme di supporti diversi, come per dissacrarla e riportarla allo status di semplice oggetto, co­munque ad un livello di ingrediente compositivo qualunque; dall’altro, far emergere da questo coacervo di elementi eterogenei valori figurativi simbolici: le associazioni di frammenti, foto­grafici e non, toccano quindi tutto il repertorio delle analogie, degli accostamenti, della conta-minatio di idee, sia in un senso politico di contestazione e di critica sia in quello poetico di una metaforizzazione positiva ed espansiva, quasi un Blob simultaneo e onnicomprensivo.

Negli anni recenti abbiamo assistito alle lezioni fotografiche in questo rinnovato spirito neo-surrealista di molti autori sia europei che nord-americani come J.P. Sudre, con i suoi pae­saggi materiografici, J.N. Uelsmann, con i suoi interni in fotomontaggio, U. Mulas, con le sue verifiche, e negli anni Settanta-Ottanta L. Krims, con le sue allucinazioni della piccola borghe­sia americana, D. Michals, con i racconti dell’impossibile, o M. Mahr, con il suo post-moderni­smo neo-magrittiano.

Su questa strada sono incamminati anche i giovani autori italiani presenti nella mostra che, con vari accenti e personali ricerche tecnico-formali, tentano di esplorare l’universo oniri­co, anche se profondamente mutato, ed essi mi sembrano assolutamente coscienti di ciò, e il mondo degli spettatori, ormai avendo da tempo sedimentato le novità delle avanguardie e sco­perto il gioco della provocazione. Rispetto al pubblico delle prime avanguardie quello contem­poraneo ha infatti una certa esperienza (attraverso il cinema di consumo, che ha fatto proprie le lezioni avanguardistiche devitalizzandole grazie alla spettacolarizzazione dovuta agli effetti speciali) delle forme e dei possibili contenuti insiti nell’immagine; inoltre la pubblicità, sia quella più bassamente commerciale che quella più raffinata e colta, si serve di tutta la simbolo­gia e di ogni sorta di accostamenti allusivi fino al subliminale.

Nasce così un nuovo ed eccitante confronto tra autori e pubblico, pieno di citazioni, ri­mandi, allusioni velate o manifeste, ammiccamenti e furbizie, di cui era priva la avanguardia storica per la diversa e meno aggressiva partecipazione dei due poli antagonisti al gioco. Que­sto è il territorio nuovo, la nuova frontiera verso cui tende la fotografia surrealista oggi, in un tentativo di investigare ancora più nel profondo, grazie ad una nuova situazione di complicità, i risvolti angosciosi ed inquietanti dell’uomo contemporaneo, meno ingenuo della generazione che lo ha preceduto, ma forse proprio per questo molto più vulnerabile e fragile.