Stelle Presentazione

Sebastiano Messina si esprime con il medium fotografico. La sua esperienza artistica e di organizzatore culturale nasce da una precisa scelta di campo culturale, di forte afflato anche  etico-politico. Alla fine del 1990 fonda, con Claudio Spoletini, la rivista Kr 991, uno strumento di riflessione artistica e letteraria, fortemente permeato dalla matrice surrealista.

In un’intervista così Messina rievoca quell’episodio: “sul valore delle immagini surreali abbiamo sempre puntato molto, dal momento che, in esse abbiamo sempre visto una sorta di nemesi sull’aridità e sull’ineluttabilità del reale. Mai, però, abbiamo pensato ad esse come a qualcosa che fosse nemico o fungesse da alternativa alla razionalità, anzi. Abbiamo sempre visto nell’immagine surreale un’arma in più per la ragione, una sorta di ali che le permettessero il salto oltre gli ostacoli che le appaiono alla fine di ogni sentiero percorso al limite dell’estensione delle sue possibilità[1].

Il rimando ai fondatori del Surrealismo si sostanzia anche negli “Appunti  per un Manifesto pensando a Bréton”, elaborati nello stesso periodo. A quella ormai lontana esperienza , di ritornante importanza, si dovrà guardare, alla luce dei germi fecondi da essa gettati nella situazione romana.

E nel lavoro di Messina “sul paesaggio che da reale diviene metaforico, interiore, attraverso una stratificazione[2] credo si  rinvengano elementi emblematici di Neosurrealismo.

La scelta del titolo del ciclo, Epoché, ovvero sospensione del giudizio, allude alla (temporanea?) messa da parte non della ragione ma delle facoltà logico-discorsive. Posto a tacere dunque il logos ( e con esso la tradizione logocentrica) è possibile immergersi in un reale assoluto, che immediatamente si qualifica come surrealtà.  La fotografia è davvero il mezzo d’elezione per costruire, a partire da tali presupposti, una nuova narrazione  sulle cose, come dimostra l’esemplare saggio di Rosalind Krauss su “Fotografia e Surrealismo[3].

La prima osservazione deriva senz’altro dal realismo apparente e tautologico di Agòn-ia , fig.    

Esso sottolinea la natura di indice della fotografia[4], ossia la sua natura di traccia della realtà, nello stesso tempo indicando, sul piano dello stile, con la nitidezza della messa a fuoco e la lucidità precisa dei colori, saturi e luminosi, quella preminenza del visivo che è basilare fondamento surrealista. Nella costruzione incongrua della composizione predomina visivamente una superficie scabra ed ondulata, come roccia ricoperta dai muschi, di indecifrabile e metamorfica bellezza. Bréton in “L’Amour fou[5] definisce la Bellezza convulsiva dei surrealisti elencando, tra altre, proprio la categoria del metamorfico e citando in particolare le casuali “sculture” geologiche di una grotta vicino a Montpellier.

Il dubbio che si accompagna all’osservazione di questa strana superficie geologica, conduce via via verso ipotesi sempre meno probabili sulla sua identificazione, forse una sorta di grotta o una parete obsolescente esposta alle intemperie in un sito abbandonato o forse ancora un’abitazione rupestre, un eremo, mentre tale  ambiguità costituisce il motivo non ultimo del fascino dell’opera.

Fuori centro il braccio di un Crocifisso policromo di cui si vede solo la mano, inchiodata alla croce: simbolo del martirio per eccellenza della nostra cultura, ma anche rimando alla storia dell’arte nella sua maggioritaria accezione di  arte cristiana. Non manca, mi pare, l’allusione ad una storia dell’arte minore, popolare, che ha arredato tante chiese della nostra infanzia. Decentrata, ma completamente leggibile, un’immagine sacra, del Sacro Cuore, immagine di devozione popolare, sotto un vetro aggredito dal tempo, si offre alla meditazione, muovendosi nella stessa area semantica del martirio e nella medesima fascia iconografica che abbiamo visto per il Crocifisso. Lo stesso soggetto, intervallato dalla cesura della superficie vuota,  è dunque raddoppiato.  Proprio al procedimento del “raddoppiamento” e alla correlata categoria della “spaziatura”  (peraltro desunta da Derrida), Krauss riferisce,  nella sua lettura semiologica, due dei canoni della fotografia surrealista.  Infine, un ulteriore elemento concorre alla definizione di un purissimo dettato surrealista: l’inquadratura con funzione strutturale che taglia fuori buona parte del soggetto, replicata poi, quasi a sottolineare la frammentarietà dell’icona nella cornice sulla destra[6].

Sensibile e colto frequentatore della storia dell’arte, Messina muove dunque uno spostamento sottile dalla riflessione sull’arte alle nuove proposizioni della  storia delle immagini, scegliendo un’iconografia complessa. La  sintassi surrealista della costruzione dell’immagine, la definizione che restituisce, con spietato e sovrabbondante realismo ottico, ogni particolare delle superfici, organizzano un ordine compositivo complesso ed ellittico, multicentrico, in grado di trasmettere una leggera, lucidissima  vertigine, un senso di celata instabilità, che è anche la cifra distintiva e la sigla formale della sua opera.


[1] Da un’intervista pubblicata in www.officinadelleimmagini.it

[2] Maria Francesca Zeuli, Presentazione della mostra “Altera”, cit.

[3]R. Krauss “Teoria e storia della fotografia”, a cura di Elio Grazioli, Bruno Mondatori, Milano, 1996 

[4] R. Krauss vi basa la sua teoria sul fotografico, riprendendo tale nozione dalla riflessione di Peirce, cfr R. Krauss “Teoria e storia della fotografia”, a cura di Elio Grazioli, Bruno Mondatori, Milano, 1996. e cfr C. S. Peirce “Semiotica”.Einaudi, 1980

[5]L’Amour fou”, Gallimard, Paris, 1937; trad. it. “L’Amour fou”, Einaudi, Torino, 1974

[6] R. Krauss, op. cit. “…la fotografia surrealista insiste enormemente sull’inquadratura per farne un segno leggibile, un segno vuoto, è vero, ma un numero intero nell’algebra del senso, un significante della significazione”. Del resto l’intero saggio, cit., parte dall’analisi semiologica dell’inquadratura in un autoritratto di  Florence Henri.