Epiphanie

Assistiamo, ormai da qualche decennio, ad un bisogno sempre crescente di fotografare tutto ciò che ci circonda. Intere famiglie si riprendono vicendevolmente, non solo durante i loro viaggi ma anche nelle giornate di festa, al parco o in centro città, agevolate dalla miniaturizzazione delle macchine digitali, alle quali nessuno può negare una tasca o uno spazio nella borsetta. Questa attitudine è giustificata dal fatto che la realtà è lì, intorno a noi, disponibile, e che ormai non è più richiesta una sapienza tecnica per portarsela a casa; di fatto questo stipare immagini è quasi un gesto meccanico, una sorta di libidine che non riusciamo più a controllare, con la conseguenza che accumuliamo foto su foto, siano esse in forma cartacea o semplici files da lasciar marcire nel fondo di un cassetto o in un remoto angolo del nostro computer. Poco fa ho volutamen­te usato il verbo “riprendersi” anziché “immortalarsi”, per sottolineare l’assenza di finalità alta in quel gesto meccanico. Immagine da lasciare ai nostri nipoti? Documento sociale che attesti la nostra epoca? Niente di tutto questo, solo una pul­sione automatica che probabilmente fa il paio con l’altra dei nostri giorni, quella dei cellulari, che ci spinge a telefonare imme­diatamente, come in crisi d’astinenza, appena emersi dalla metropolitana. Bisogno di comunicare? Non credo proprio, se solo riflettessimo sui contenuti dei nostri dialoghi (vedi Carlo Verdone in Viaggi di nozze).

Eppure fare una fotografia è un gesto di consapevolezza, direi anche di responsabilità. Nell’istante in cui premiamo il pulsan­te della macchina, qualunque foto stiamo per fare, ci prendiamo una grossa responsabilità, scegliendo di “storicizzare” una forma del creato anziché un’altra o un’altra ancora. E questo è ancora più valido se consideriamo che la fotografia non for­nisce una immagine impersonale del mondo, quantunque presa dalla realtà, ma una opinione di esso. A maggior ragione una foto paradossalmente può dire più su chi la fa che su chi ci si trova dentro.

Sebastiano Messina questa responsabilità se l’è sempre presa. Già dagli anni ’80, dalle serie su Pasolini fino ai lavori in cui reinterpretava gli anni della contestazione, ha sempre esibito un impegno contenutistico e (ormale di alto livello, del quale non era possibile dubitare neppure quando intonazioni di stampo surrealista hanno fatto irruzione nei suoi lavori. Messina è ormai approdato ad una visione scarna ed essenziale, che non concede nulla alle mode ed anzi si distacca costan­temente dalle tendenze chiassose di tanta produzione contemporanea. Sostenitore di uno stile sintetico e asciutto, ha sempre dato forma a un modo di esprimersi molto soggettivo preoccupandosi principalmente dei contenuti (= delle idee), a tutto discapito di una rappresentazione meramente realista, sia essa basata su una ispirazione derivata dalla natura o dagli ogget­ti circostanti; al contrario, ci racconta del sottile pathos che emana dalle cose o dalle situazioni, e ci suggerisce che in tutto il visibile esiste una parte a noi oscura che si riallaccia al mistero delle nostre fantasie, ossessioni, a volte angosce. Uno dei suoi tratti distintivi è sempre stato di tenere bassa la sua tavolozza, privilegiando colori tenui o spesso volutamente acromatici, con la precisa finalità di non distrarre lo spettatore dall’idea. Nelle recenti fotografie Messina si è spinto, ancora di più rispet­to al passato, nei territori del simbolo, rafforzando questa sua scelta con un supporto di stampo filosofico e teoretico, ed ha realizzato foto in cui il proprio immaginario si manifesta nella scella di figure ieratiche e inquietanti, plastiche e spesso intri­se di un esoterismo onirico. Ne è un valido esempio Io sono la luce del cosmo… in cui la composizione della foto è concepita a dittico, con il volto del Cristo sulla sinistra, tagliato a metà, il che accresce la forza e la penetrazione del suo sguardo, dal quale inevitabilmente siamo attratti. Ho notato un certo rimando a un’altra immagine (lipiphania), strutturalmente dissimi­le ma ugualmente tagliata sul volto del Salvatore, questa volta dal riflesso della piccola finestra: un’ipotesi che la luce della salvezza può provenire anche dalla natura?

Naufragio a Navarrino ha una struttura del tutto diversa, presentando una visione centrale, ristretta ancora di più dal nero cir­costante; tuttavia esibisce con palese evidenza la forza del simbolo, che secondo me è individuabile nella tenda. Tn realtà le informazioni che vengono date allo spettatore sono molto scarse, la scena mostra la carcassa di una nave arenata in acque basse, senza altri particolari che soddisfino la nostra curiosità. Ma qui è il titolo a venirci in aiuto in qualche modo: sapremo così che in questo luogo, Navarrino nel Peloponneso, fu combattuta una battaglia navale tra i turchi e la flotta alleata anglo-franco-russa, con la pesante disfatta degli ottomani. La scena attuale, che non ha particolare relazione con quanto avvenuto a metà Ottocento (se non solo la dislocazione nello stesso luogo), è però intravista attraverso quella tenda diafana (dia phài-nein, mostrare attraverso) che simboleggia il nostro distacco temporale da quell’evento storico. Anche i colori sono velati, cosicché la tragedia del naufragio si stempera nella poetica malinconia di un tempo che fu.

Si rileva già da questa analisi che nel lavoro di Messina vi è spesso una sottile attenzione alla storia. Non uso il termine con la maiuscola (sebbene in Navarrino la Storia sia in qualche modo presente), perché sono principalmente i latti quotidiani -le storie di tutti i giorni, gli eventi minimi – che interessano il nostro autore, il cui scopo è soprattutto quello di cercare un fine ed un senso che possa spiegare il nostro comune essere. Ricordo sempre che ogni artista non è un individuo avulso dalla realtà circostante, dalla quale invece prende spunto in continuazione: ma può scegliere se limitarsi all’analisi superficiale di questo mondo oppure distillarne idee, metafore o simboli che in qualche modo riguardino tutti noi. Questa è per me la dif­ferenza che fa i grandi artisti (o forse basterebbe dire quelli “intellettualmente onesti”), indipendentemente dalla fortuna cri­tica o economica.

Premesso questo, mi soffermerei ancora su una foto, che in qualche modo ritengo emblematica del lavoro del nostro autore. Nel libro La camera chiara di Roland Barthes, testo fondamentale per la comprensione dell’essenza della Fotografia, il grande strutturalista francese analizza questo medium, definendolo falso a livello della percezione ma vero a livello del tempo ed arri­va alla conclusione che il tratto essenziale della Fotografia (il suo noema) è: “È stato”. Questo vuol dire che una fotografia può solo certificare che quanto rappresenta è realmente esistito, cioè è stato posto davanti all’obiettivo, ma non ci dice nulla sulla durala (sorte) successiva di quell’oggetto (persona, cosa, evento), per la cui certificazione dobbiamo ricorrere a un altro ordine, quello verbale: la didascalia.

Bene, la foto intitolata Viniwzza rappresenta secondo me, a pieno titolo, l’esemplificazione dell’intuizione di Barthes. E’ un’im­magine che mi piace molto e che, avvalendosi di una drastica riduzione del contenuto visivo, raggiunge d’altro canto il mas simo innalzamento della valenza espressiva. Per di più ritrovo nella scultura di sabbia diversi ascendenti rintracciabili nell’ai­te moderna (da L’Urlo di Edvard Munch fino alle figure ancestrali di Mimmo Paladino), anche se eventualmente avrei qual­cosa da ridire sull’apposizione del titolo, a mio avviso troppo didascalico o addirittura tautologico: il concetto di finitezza è implicito nella materia con cui è plasmata la figurina. Cosicché sulla scorta di Barthes possiamo affermare che nel corso del tempo, in qualche indefinito momento, è sicuramente esistita una scultura di sabbia sulla riva di un ignoto mare, ma che pro­babilmente non esiste più (è la logica che ci aiuta: cancellata dalla prima onda, dall’alta marea, dai venti o arsa dal sole, poco importa). Psrò è ovvio che tutto questo discorso non sposta di un’inezia la bellezza della foto, che con i suoi colori, la com­posizione, il taglio leggermente obliquo ci rende la serenità e la tranquillità dell’hic et mine, in barba alla sua certa, futura sparizione.